L'uso delle erbe in omeopatia: il caso celidonia

Uno degli errori più comuni che si commettono quando si parla di omeopatia è di confonderla con la fitoterapia. In fin dei conti, si dice, si usano in entrambi i casi prodotti naturali, entrambe sono medicine tradizionali, con una ormai lunga storia nel nostro mondo occidentale, per cui che differenza c'è tra l'impiego della pianta in quanto tale e il suo uso in omeopatia? Eppure si tratta di due cose davvero differenti e per spiegarlo nel modo più chiaro prenderò come esempio la celidonia o chelidonia (Chelidonium majus), una pianta della famiglia delle papaveracee, molto diffusa nelle nostre zone, dove potete trovarla facilmente ai bordi della strada e nei luoghi incolti.
Quando alla fine del 1700 il medico tedesco Hahnemann codificò l'omeopatia, si pose l'obbiettivo di usare in modo "scientifico" gli strumenti terapeutici in uso nel suo tempo e la celidonia fu uno dei prodotti che prese in considerazione tra i primi.


L'uso nella tradizione popolare.
L'impiego che si faceva della celidonia veniva dalla tradizione popolare che la utilizzava innanzitutto per uso esterno sui porri e le verruche, tanto che in diverse regioni ancora adesso la pianta è conosciuta come "erba porraia": dal fusto della pianta, spezzato, esce un liquido giallo che veniva applicato su queste lesioni.
Ma un altro impiego tradizionale si rifaceva al principio della "segnatura" che stabiliva che la pianta stessa, in virtù delle sue caratteristiche, desse indicazioni riguardo al proprio utilizzo; il succo giallo, amaro, che il fusto secerneva se spezzato, ricordava la bile e da questo si deduceva un impiego di questa pianta ne disturbi epato-biliari, soprattutto le coliche della colecisti. E d'altro canto la moderna fitoterapia, analizzando la composizione della celidonia, vi ha identificato una serie di componenti che giustificano l'azione soprattutto antispastica riconosciuta tradizionalmente a questa pianta.


L'intuizione di Hahnemann
Fin qui niente di nuovo e diverso. Ma Hahnemann guarda le cose da un altro punto di vista e proprio riguardo a Chelidonium fa queste affermazioni, premettendole alla descrizione dei sintomi che ha ricavato dalla sperimentazione della pianta:
"gli antichi - scrive Hahnemann - immaginarono che il colore giallo del succo di questa pianta fosse un'indicazione della sua utilità nelle malattie del sistema biliare. I moderni da questo hanno esteso il suo uso alle malattie epatiche, e sebbene ci fossero casi dove l'utilità di questa pianta in malattie di questa regione addominale fosse ovvia, le malattie di questo organo sono molto differenti le une dalle altre, sia per la loro origine che nel contemporaneo interessamento patologico del resto dell'organismo (...) Quindi, una raccomandazione di questo tipo ha solo un carattere generale, non definito e dubbio, (...) ma l'importanza della salute umana non ammette incertezze di questo genere per l'impiego delle medicine. 
Sarebbe una criminale superficialità accontentarsi di agire senza basi sufficienti al letto del malato. Solo i sintomi puri dei farmaci, cioè quello che essi rivelano inequivocabilmente dei loro specifici poteri nei loro effetti sugli organismi umani sani, sono in grado di insegnarci con forza e chiarezza quando possono essere impiegati con sicurezza in modo efficace; e questo avviene quando sono somministrati in stati morbosi molto simili a quelli che sono in grado di provocare negli organismi sani (è proprio questo il principio dell'omeopatia, n.d.r.). Dai seguenti sintomi della celidonia, che è auspicabile siano completati da altri onesti e accurati osservatori, si apre una prospettiva molto più estesa dei reali poteri curativi di questa pianta di quanto non si potesse sognare prima. Tuttavia, solo il medico che ha familiarità con la dottrina omeopatica sarà in grado di farne un utile uso".


Due possibilità differenti
"Il medico comune - conclude Hahnemann - si dovrà accontentare delle incerte indicazioni per l'impiego della celidonia di cui può disporre nella sua confusa letteratura medica".
E' evidente che, rispetto ai tempi di Hahnemann, la ricerca ha fatto passi da gigante e l'uso fitoterapico della celidonia poggia adesso sulla conoscenza dei principi attivi della pianta che sono stati studiati e possono essere dosati e prescritti con modalità "scientifiche", e non più sulle così incerte basi a cui si riferiva Hahnemann.
Non si tratta di dare giudizi sul fatto che un'opzione sia meglio di un'altra: sono due possibilità differenti; infatti quello che differenzierà l'uso fitoterapico della celidonia dal suo impiego omeopatico sarà la ricerca, da parte del medico omeopata, di una corrispondenza più ampia tra i sintomi del paziente e quelli che celidonia è stata in grado di provocare nella sperimentazione omeopatica e che quindi è in grado di curare. Per cui la preziosa celidonia non sarà usata in omeopatia per curare qualunque disturbo che riguardi il sistema epato-biliare, ma sarà data a pazienti che presentino sintomi fisici, mentali, generali, simili a quelli che sono messi in evidenza nella sperimentazione della sostanza. L'uso fitoterapico ricalcherà quindi il ragionamento che si fa nella medicina convenzionale, cioè ricerca del principio attivo e del relativo meccanismo di azione. Non bisogna dimenticare, tra l'altro, che stiamo parlando di una pianta fondamentalmente tossica, di cui è assolutamente sconsigliabile l'uso senza controllo dello specialista in fitoterapia, al di fuori di quello della vecchia tradizione contadina per applicazione esterna.


Senza rischi tossici
Il medico omeopata cercherà invece di inserire il sintomo all'interno di un più ampio quadro individuale, tipico di quel particolare paziente e solo se la corrispondenza più ampia è soddisfatta si utilizzerà questo medicinale. Altro elemento di non poco conto è che in omeopatia si impiega la sostanza ultra diluita, senza quindi rischi di tossicità per l'organismo.






Articolo di Antonella Ronchi




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1 commento:

Lux ha detto...

Le virtù della celidonia http://www.cavernacosmica.com/le-virtu-della-celidonia/

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